di Nanni Mattia Pascale Brandi
L’odore di umido misto a ruggine e sassi e sigarette spente filtrava dalla porta aperta mentre il treno sostava in una piccola stazione anonima ma prepotente nel farsi annunciare all’arrivo. Il mio partire quella sera portava nella valigia una vita rosicchiata e spesa a tirare avanti tra lacrime di addio e baci che sapevano di arrivederci a presto. Erano anni che non salivo su un treno. Mi ero ripromesso che non l’avrei mai più fatto. L’ultimo mi aveva portato via dalla mia piccola e stupida città in un giorno di ottobre di tanti anni prima quando i miei venti anni ridevano poggiati ai finestrini aperti che incrociavano saluti e baci lanciati da labbra conosciute. Non avrei mai più preso un treno dicevo spesso scuotendo la testa in una negazione convinta che mescolava pensieri che sapevano di ricordi scoloriti e antiche paure di distacchi forzati.
Non l’avrei mai più preso perché ero stanco di partire e lasciare luoghi che mi avevano visto felice.
Stanco di lasciare alle mie spalle amori passeggeri. Stanco di salire e scendere e non trovare mai posto a sedere e poi Poggiarsi nei lunghi corridoi tra borsoni e sigarette fumate per ammazzare il tempo. Mentre pensavo a tutto questo mi ritrovai in piedi a guardare il tabellone delle partenze tra binari e brulicare di gente. Accennai ad un sorriso dedicato a me stesso. Dedicato a tutte quelle promesse non mantenute. Tornai serio per un attimo muovendo i passi incerti tra la gente e trovai bello ritrovarmi nuovamente immerso tra lo scorrere di storie mai raccontate ma che si potevano leggere negli occhi di chi sfiorava la mia ombra poggiata al pavimento. Accesi una sigaretta quasi a voler ammazzare il tempo e proprio accanto a me intravidi quello che sarebbe stato il mio compagno di viaggio.
Non aveva il colore grigio ferro di tanti anni fa ma si lasciava ammirare in tutta la sua magnifica tecnologia.
Pensai sarebbe stato bello accomodarsi sulle sue comode poltrone poggiando il telefono sul tavolino e leggere un libro. Ancora due tiri di sigaretta e mi avviai per prendere posto. Due gradini e fui subito accolto da un corridoio di luci quasi fossi in passerella. Mi lasciai scivolare sulla poltrona convinto che quello sarebbe stato il mio angolo di pace tra le voci che intraprendevano il viaggio con me. Guardai fuori dal finestrino. Una ragazza Bionda dal tacco alto se ne stava poggiata ad una colonna scarabocchiata di messaggi e guardava intenta il display del telefonino quasi a sperare in un messaggio capace di farla tornare indietro.
Uno di quei messaggi che cancellano la rabbia che ci portiamo dentro e fanno girare i tacchi ad un futuro incerto per riprendere la strada di casa e tornare tra le braccia di chi forse quel messaggio non l’aveva ancora scritto.
Poco distante due bambini giocavano a fare girotondi e ridevano mentre aspettavano che arrivasse quel treno che forse avrebbe riportato a casa un papà stanco dal lavoro e da un lungo viaggio o forse solamente un papà che non vedevano da mesi dopo che era andato via scacciato da quell’abitudine trasformatasi in rabbia e finita poi nell’indifferenza di affetti annoiati. Un anziano masticava un sigaro spento e guardava attentamente il tabellone degli arrivi e ansimava e poi guardava per terra e nuovamente il tabellone e poi uno sguardo lanciato fugacemente al polso dove un orologio vecchio quasi quanto i suoi anni segnava un’ora troppo lontana da quell’arrivo previsto. La ragazza Bionda mise il telefonino nella borsa che si perse tra le tante cose che una borsa da donna contiene e prese a camminare avanti e indietro quasi a volersi farsi notare.
I due bambini smisero finalmente di girare quando la voce annunciò l’arrivo di quel treno che riportava loro un papà desideroso di abbracciarlo.
Poggiai la testa la finestrino chiudendo gli occhi in una lacrima che timida si era lasciata cadere prima di quelle mai piante. Continuavo a giocare con il biglietto tra le dita come a far finta di niente ma dentro c’era un mondo che stava esplodendo e non sapevo se alzarmi e correre forte nel corridoio per dire di partire che avevo fretta che in una stazione più lontana c’era la mia bimba che chiusa in un cappotto rosso era ferma ad aspettarmi o starmene accucciato in quell’angolo di treno a tremare per tutte quelle mie paure chiuse dentro e che non conoscevano parole per farsi raccontare. Abbassai gli occhi che poco prima avevano incontrato gli occhi di un uomo elegantemente seduto proprio di fronte a me e che con fare sereno tolse la giacca e piegandola la ripose sulla poltrona accanto ancora vuota ed accennò un sorriso di cortesia.
Ero stanco.
Una giornata di lavoro e poi una corsa in tangenziale e quel fare frenetico una valigia con la paura di dimenticare qualcosa e poi nuovamente di corsa in strada a rincorrere un taxi che mi avrebbe portato proprio dove adesso ero seduto. Sorrisi. Sorrisi pensando a lei chiusa in un cappotto rosso con quei riccioli sparsi sulle spalle ed un cappello che le copriva quasi gli occhi per il freddo mentre aspettava in piedi nella stazione di quella città che non ci apparteneva ma che la teneva dentro per scelte fatte da chi aveva deciso che quella sarebbe stata la sua casa. Lanciati uno sguardo al telefono che se ne stava muto poggiato nell’angolo del tavolino e nello stesso istante una signora sulla settantina sorridendo prese a sedersi proprio accanto al mio posto.
Il treno correva rapido su strade disegnate.
Un proiettile esploso ad un orario preciso e lanciato a bomba verso destinazioni certe dove la gente scendeva e saliva. Dove le storie finivano e cominciavano. Dove non si aveva nemmeno il tempo di fumare una sigaretta a porte aperte che già ci si ritrovava catapultati in una corsa sui binari sfrecciano veloci tra paesaggi invernali e case basse e poi montagne che conoscevano il freddo dell’inverno e quell’aria gelida che solo un addio riesce a regalare. Presi un libro tra le mani quasi a voler distrarmi e l’odore delle pagine ingiallite salì fino a risucchiati dentro tra le righe coinvolgendomi in una storia di anni andati. Di quando le carrozze dei treni erano ferro e pelle marrone e gli scompartimenti sembravano scatole a sei posti dove rifugiarsi dalla calca che riempiva i corridoi.
La signora accanto fece un colpo di tosse quasi per distogliermi dalla lettura e forse aveva voglia di parlare.
Chiusi le pagine e posai il libro sul tavolino proprio accanto al telefono che se ne stava in silenzio. Aveva occhi verdi che illuminavano la pelle chiara dove poche rughe scivolava o decise fino a perdersi in un sorriso sereno e prese a parlare.
“Io me li ricordo i treni di una volta. Quell’accavallarsi di storie diverse. Quel doversi spingere per riuscire a passare e tutti quegli uomini in piedi davanti ai finestrini aperti che fumavano sigarette e chiacchierano di donne e buon vino e dell’ultima partita di campionato e di quei rigori tirati quasi quanto i volti di chi da ore viaggiava senza riuscire a dormire…
… Me li ricordo quando arrivava l’estate e si riempivano di bambini festanti che scendevano al sud per correre sulle spiagge assolate e scottarsi i piedi senza dire una parola che tanto l’estate durava un mese e c’era tempo per lagnarsi nel viaggio di ritorno. Me li ricordo quando quel 2 di agosto passammo per Bologna che puzzava di bruciato e sangue e rabbia che dilagava in tristezza e ricordo quell’orologio fermo a segnare il tempo spezzato da una valigia abbandonata in una sala d’attesa dove le mamme sedute tenevano buoni i bambini più irruenti aspettando che l’estate le scaldasse dopo un inverno dal freddo bastardo”.
Fu silenzio.
Un silenzio misto a sapore amaro di una sconfitta. Ero troppo giovane a quei tempi ed i miei treni viaggiavano sui pavimenti delle stanze in un girotondo continuo di una locomotiva elettrica che tirava vagoni di plastica. Dopo qualche minuto una voce gentile dai capelli lunghi e neri ci chiese di presentare il biglietto di viaggio e sorridendo in una cortesia inconsueta tirai dalle tasche quel pezzo di carta che segnava a caratteri evidenti la mia destinazione.
La mia bambina si stava preparando per venirmi a prendere in quella stazione che ancora non conoscevo e che sapevo già diversa da tutte quelle in cui ero salito o sceso da treni che mi portavano in giro per l’Italia. Ne avevo presi di treni nella mia vita. Tanti mi avevano visto felice in tutte quelle partenze improvvise sempre a caccia di concerti e qualcuno sulla strada del ritorno mi aveva visto innamorato follemente di qualche ragazza sparita una volta scesa alla sua stazione. Ne avevo persi anche tanti come si perdono quelle poche occasioni nella vita ma non li avevo mai rincorsi perché ad ogni treno perso ne arrivava subito un altro che bastava solo essere pronti a salire per riprendere il viaggio.
Questo treno invece sapevo da mesi che sarebbe stato importante. Indelebile quasi quanto un tatuaggio.
Lo sapevo da quando avevo visto andare via mia figlia che salutava attraverso i vetri oscurati di una macchina e che allontanandosi tirava su polvere che andava ad asciugare tutte quelle lacrime che non avrei mai voluto piangere. Lanciati un’occhiata all’orologio e sorrisi vedendo che mancavano un paio d’ore all’arrivo e che sarei stato felice di arrivare in quella città dove il freddo mi avrebbe fatto tremare e tirare su col naso. Avevo previsto tutto. Una giacca sotto al cappotto e cappello ben serrato sui capelli troppo corti da spettinare e guanti morbidi per ospitare le manine di mia figlia una volta che ci saremmo incontrati e presi per mano per allontanarci dai binari come nell’ultima scena di un film.
L’uomo elegante seduto di fronte mise a posto la giacca che uno scossone del treno aveva spinto quasi a farla cadere poi si ricompose e riprese a leggere il giornale che odoravano di carta e petrolio.
Poco più avanti un bambino inginocchiato sul sedile mandava baci e saluti con la mano a chi incrociava il suo sguardo ed il padre che sembrava un ragazzino non riusciva a tenerlo fermo e allora decise di desistere e prese nuovamente a giocare con il cellulare senza preoccuparsene troppo. E non me ne preoccupi nemmeno io. Troppo intento a guardare il passare lento dei minuti tra le lancette di quell’orologio che portavo al polso proprio da quando quella bambina si era allontanata dalla mia casa portandosi dietro uno dei miei sorrisi e quella bambola dai capelli lunghi regalata in un giorno di agosto quando la vacanza non ci faceva pensare ai giorni che saremmo stati lontani.
E lentamente il treno entrò in stazione tra il rumore sferragliante di vagoni in frenata e urla di gente che correva tra un binario e l’altro quasi a voler far notare a chi era sopra che qualcuno c’era ad aspettarli. Presi la mia roba con fare tranquillo. Salutai l’uomo seduto davanti a me e la signora dagli occhi chiari. Con la mano sfiorai un ciuffo di capelli di quel bambino capriccioso e sorrisi al giovane padre. Quando si aprirono le porte fui avvolto da un’aria gelida a cui non ero abituato. Contai i gradini prima di arrivare a toccare il marciapiedi e feci un balzo in avanti per superare la linea gialla.
Lo facevo tutte le volte che mi capitava di scendere da un treno.
Da sempre. Presi a cammina re tra la gente tirando il mio trolley e respirando lingue diverse. Sapevo che da un momento all’altro avrei incrociato il suo sguardo. Me lo sarei sentito addosso. E puntuale arrivò. Come una notte di stelle cadenti a San Lorenzo. Come un’onda improvvisa che quando arriva ti travolge tra risa e grida e ti lascia addosso quel freddo sulla pelle. Fu bellissimo vederla correrai incontro avvolta nel suo cappotto rosso e quelle guance colorate per il freddo. Fece un balzo veloce che già sapeva che sarebbe atterrata tra le mie braccia e girammo e danzammo tra la gente come quando due ragazzi che si amano chiudono la scena di un bel film. Fu così la fine del mio viaggio. Fu così il nostro primo incontro in quella città che la viveva senza di me. La guardai negli occhi sorridenti di sempre.
“Piccolina… Ricordati che i treni tornano sempre”.
E ci allontanammo mano nella mano tra lo sferragliare dei treni e gli sguardi dei viaggiatori.