Oggi sulla nostra pagina di diario parliamo del romanzo “Le otto montagne” di Paolo Cognetti. Vincitore del Premio Strega nel 2017 e ispirazione per un lungometraggio vincitore di ben 4 David di Donatello nel 2023 nonché il Prix du Jury al Festival di Cannes solo l’anno prima, “Le otto montagne” è stato per noi una sorta di viaggio. O meglio di percorso che pagina dopo pagina ci ha introdotto in una dimensione altra: la vera essenza della montagna che impregna le vite di chi la ama. Sono intrise di boschi e torrenti, di alpeggi e di odore di legna bruciata le giornate di Pietro e Bruno, un’amicizia trentennale che diventa una arrampicata insieme anche quando i percorsi sembrano individuali e impervi. La montagna dei ricordi di infanzia diventa per Pietro il paradigma, l’unità di misura delle altre vette con cui si cimenterà, la vita di Bruno è quella del bambino e poi dell’uomo che trova nella montagna la sua essenza e poi si fonde con essa. A volte inconsapevolmente e in maniera quasi selvaggia, segnata da momenti particolarmente difficili e tragici ma estremamente veri. E’ l’uomo che non scende dalla montagna un luogo che diventa il centro emotivo del mondo anche per Pietro. E leggendo il libro sembra di vederle quelle montagne, pare di sentire la fatica nelle gambe, la narrazione accompagna il lettore come una guida tra i boschi. C’è tanta vita vera in questo romanzo in cui i rapporti personali, partendo da quello tra Pietro e suo padre, assumono sfumature impreviste, profonde e alcune volte comprensibili solo con il tempo e la distanza. La montagna è anche un momento rivelatore in cui l’uomo ritrova il suo passato lasciando la città e raggiungendo gli alpeggi all’ombra dei ghiacciai. E’ un romanzo che consigliamo a chiunque sia convinto che leggere un libro sia sempre come mettersi in viaggio.
Sinossi: Pietro è un ragazzino di città, solitario e un po’ scontroso. La madre lavora in un consultorio di periferia, e farsi carico degli altri è il suo talento. Il padre è un chimico, un uomo ombroso e affascinante, che torna a casa ogni sera dal lavoro carico di rabbia. I genitori di Pietro sono uniti da una passione comune, fondativa: in montagna si sono conosciuti, innamorati, si sono addirittura sposati ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. La montagna li ha uniti da sempre, anche nella tragedia, e l’orizzonte lineare di Milano li riempie ora di rimpianto e nostalgia. Quando scoprono il paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa, sentono di aver trovato il posto giusto: Pietro trascorrerà tutte le estati in quel luogo “chiuso a monte da creste grigio ferro e a valle da una rupe che ne ostacola l’accesso” ma attraversato da un torrente che lo incanta dal primo momento. E li, ad aspettarlo, c’è Bruno, capelli biondo canapa e collo bruciato dal sole: ha la sua stessa età ma invece di essere in vacanza si occupa del pascolo delle vacche. Iniziano così estati di esplorazioni e scoperte, tra le case abbandonate, il mulino e i sentieri più aspri. Sono anche gli anni in cui Pietro inizia a camminare con suo padre, “la cosa più simile a un’educazione che abbia ricevuto da lui”. Perché la montagna è un sapere, un vero e proprio modo di respirare, e sarà il suo lascito più vero: “Eccola li, la mia eredità: una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati, un pino”. Un’eredità che dopo tanti anni lo riavvicinerà a Bruno.