In Alto Adige nelle vicinanze del Passo Resia in Val Venosta esiste un luogo unico e magico che è diventato una meta in cui la storia politica e la leggenda si fondono circondati dalle meraviglie della natura. Si narra infatti che nelle notti d’inverno quando il lago ghiaccia il campanile che emerge da quello che è il più grande bacino d’acqua della provincia nord-occidentale di Bolzano nel piccolo centro abitato di Curon, sommerso dal lago nel 1950 per costruire una diga per produrre energia elettrica; si possa raggiungere a piedi e si sentano anche suonare le campane che furono rimosse nel 1959 ancor prima del completamento del bacino artificiale.

L’iconica immagine del campanile che spicca solitario poco lontano dalle rive su uno specchio di acqua chiara simbolo di Curon della Val Venosta è diventato protagonista anche di una serie tv Netflix “Curon” e, a dispetto dell’immagine sinistra, questo luogo che si trova in una delle valli più selvagge e incontaminate dell’arco alpino a cui fanno da cornice le montagne di Vallelunga, è pieno di bellezza, una bellezza suggestiva quanto struggente, perché nasconde un passato doloroso.
Sempre più meta turistica che affascina e cattura e fa riflettere sulle vicende del passato recente e del sacrificio di chi abitava da sempre in questi luoghi. La distruzione della vecchia Curon, oltre ad aver creato un luogo caratteristico e unico nel suo genere, rimane un esempio del modo brutale e cinico in cui, a cavallo tra il ventennio fascista e il dopoguerra, i grandi gruppi industriali italiani sfruttarono il bacino idroelettrico delle Alpi per sostenere la modernizzazione del paese.


E attraverso una prosa essenziale e diretta il libro di Marco Balzano “Resto qui” che ha ottenuto diversi riconoscimenti e ricevuto diversi premi ha elevato questo luogo a simbolo della resistenza e dell’orgoglio di appartenenza delle sue genti in una sorta di epopea che tragicamente anticipa il destino nefasto che li attende e che li troverà perdenti ma non sconfitti. Una storia civile attualissima che cattura fin dalle prime parole. E quel campanile che emerge dal lago in un luogo dove l’acqua ha sommerso ogni cosa è l’immagine forte della copertina che quasi preannuncia un finale che arriverà ma che è ancora sconosciuto ai protagonisti del libro.

In questa terra di confine dove il 97% della popolazione parla tedesco all’improvviso anche la propria lingua madre diventa qualcosa che ti viene tolto e non ti appartiene nel momento in cui Mussolini mette al bando il tedesco e perfino i nomi sulle lapidi vengono cambiati. Questa lacerazione, questo strappo fa perdere la propria identità che può essere ritrovata solo raccontando una storia. La propria. Trina è la giovane madre protagonista di questa storia che amplifica il dolore della ferita inferta alla collettività con la propria sofferenza personale ed intima. La figlia è scomparsa senza lasciare traccia e lei, invocando di continuo il suo nome, non hai mai smetto di aspettarla, scriverle come se quelle sue disperate parole potessero restituirla perché non ha mai smesso di aspettarla, di scriverle, di sperare di poterla riabbracciare. Quel dolore privato, sordo e disperato si scontra all’improvviso con la guerra che incombe e che viene a bussare anche alla sua porta di casa. Il marito si rifugia sulle montagne e diventa disertore e lei decide di seguirlo come se la scelta di convivere giorno dopo giorno con la morte fosse la soluzione per lenire il suo dolore. Alla guerra segue un dopoguerra che non porta alcuna pace né a Trina né alla sua famiglia né al suo paese. Il lettore inerme come la protagonista, tra bugie, finte rassicurazioni e malriposte speranze, osserva impotente il precipitare degli eventi, un giorno dopo l’altro. La costruzione della diga inonderà tutto spazzando via tutto. Le case e le strade ma anche i dolori e le illusioni, la ribellione e la solitudine. E la forza e la potenza di questa storia è tutta racchiusa in quest’ immagine del campanile sopravvissuto alle acque distruttive.